Sfortunatamente son stato costretto a trascurare il blog per un po', brutto segno, soprattutto ora che siamo agli inizi. D'altro canto ritengo sciocco prendersi impegni forzati di pubblicare sempre qualcosa al solo fine di dare tono alla pagina, trattare di montagna non necessita di "bla bla" al vento. Meglio poco e sostanzioso, se si riesce.
A beffarmi ulteriormente, in sti tempi è stata la scarsa possibilità di dedicarsi alla montagna . Si avvicina l'inverno, la candida mezza stagione si prepara a rangrinzirsi tramutando l'ambiente alpino ad una dimensione inacessibile e selvaggia. Tanto imponente quanto affascinante. l'appassionato si ritrova un poco spaesato, la palestra muta le condizioni di accesso, si accantona la sacchetta di magnesite e si spolverano picozze e ramponi, s'ambisce di poter indossare gli scarponi da sci quanto prima, frenato ancora dalle instabilità climatiche e della neve.
Fortunatamente, questa sorta di stallo è compensata in parte dalla lettura casalinga. Come già accennato precedentemente il libro di montagna è una fonte inesauribile di emozioni che gli autori riescono a trasmettere con sensazionale semplicità. O forse no, però amo pensarla così.
A farmi compagnia in queste sere è stato uno di quelli considerati "classici". Ci sono arrivato piuttosto tardi, forse mai se non fosse stato tanto menzionato da altri alpinisti scrittori come una sorta di bibbia sulla filosofia alpinistica. Scusate se ancora non l'ho nominato: parlo de "I conquistatori dell'inutile" di Lionel Terray. Splendido, ma non per come lo aspettavo.
Molto più d'un classico libro di montagna, un'autobiografia del noto alpinista francese, si pone al lettore con tutte le caratteristiche che formano un romanzo. L'autore sa bene cosa dire, narra di sé attraverso il momento più storico dell'alpinismo, menziona attentamente accenni dell'infanzia, la difficile permanenza nell'esercito durante la guerra, le terribili situazione che avvolgevana i mondo in quegli anni, il costante richiamo sfrenato della natura ai suoi uomini più irrequieti. Si autoproclama fautore ed amante delle montagne, guida alpina di valore e compagno di pertiche del periodo quali: Gaston Rebuffat, Luois Lachenal, Jean Couzy.
A cavallo delle formidabili imprese, le sue riflessioni diventano anche pompose e spaccone, ma comunque sempre ridimensionate dal titolo scanzonatorio.
A mio avviso Terray non è un filosofo della montagna (come invece mi facevan credere), piuttosto uno splendido comunicatore. Dalla sua penna non fuoriesce che la verità vissuta in quei momenti, forse meno profonda di altri, ma assai riconoscibile a chi almeno una volta si è trovato praticare alpinismo. Pagina dopo pagina riflettevo su cosa per me significhi veramente l'alpinismo, forse ancora non ne son certo.
Vorrei menzionare appunto un curioso sogno che ho avuto al termine di un racconto (spesso e volentieri amo leggere prima di dormire, intimo momento della giornata e dove in seguito si rielaborano i contenuti).
Sicuramente legato al capitolo appena trattato, l'autore narrava infatti di una terribile disavventura vissuta durante la discesa dalla vetta dell'Annapurna. Assieme ai compagni venne sommerso da una valanga e intrappolato in una buca nella neve. Ad aggravare la situazione s'aggiungono le difficili condizioni del compagno e amico Lachenal, congelato ai piedi e allucinato dalla fatica e dall'alta quota.
Nel sogno mi ritrovavo in una situazione simile, isolato e con un compagno ferito fra dei pendii himalayani, spaesato nella nebbia e acciecato dalle interperie. Invece di mostrare interesse per le condizioni dell'amico, disperavo quanto più verso uno sfreggiamento al viso (causato probabilmente dal freddo) che mi aveva deturpato le sembianze. Tutto ciò scaturiva fortissime angoscie interiori, non sapendo se abbandonare il compagno al triste destino cercando di raggiungere il campo base più in fretta possibile, salvandomi forse così da una mutilazione eterna. Come tutti i sogni poi, è terminato prima che potesse darmi una conclusione rivelatoria. Ma quanto vissuto è bastato per ragionare su come davvero potrei comportarmi in una situazione tale, forse con l'altruismo commovente del buon Terray, che concesse i suoi scarponi all'amico al fine di salvarlo dall'ipotermia, oppure pensare egoisticamente, salvando poi quella parte superficiale che meno conta in montagna ma tanto serve nel mondo degli uomini. La faccia.
Eh vabè, spero di non scoprirlo mai (soprattutto di non essermi giocato futuri compagni di cordata con queste rivelazioni preoccupanti).
Tornando al libro, quello che poi ci interessa, terminerei con menzionare una parte, una frase che mi aggiudicherà definitivamente la fama di farabutto rompicazzo. L'ultima conclusiva, lascia nel lettore una lacrima di commozione, quasi a farlo apposta, par coscente del legame maligno con la morte che toccherà l'alpinista qualche anno dopo, poco distante dal luogo in cui quel giorno terminò il suo splendido libro:
A beffarmi ulteriormente, in sti tempi è stata la scarsa possibilità di dedicarsi alla montagna . Si avvicina l'inverno, la candida mezza stagione si prepara a rangrinzirsi tramutando l'ambiente alpino ad una dimensione inacessibile e selvaggia. Tanto imponente quanto affascinante. l'appassionato si ritrova un poco spaesato, la palestra muta le condizioni di accesso, si accantona la sacchetta di magnesite e si spolverano picozze e ramponi, s'ambisce di poter indossare gli scarponi da sci quanto prima, frenato ancora dalle instabilità climatiche e della neve.
Fortunatamente, questa sorta di stallo è compensata in parte dalla lettura casalinga. Come già accennato precedentemente il libro di montagna è una fonte inesauribile di emozioni che gli autori riescono a trasmettere con sensazionale semplicità. O forse no, però amo pensarla così.
A farmi compagnia in queste sere è stato uno di quelli considerati "classici". Ci sono arrivato piuttosto tardi, forse mai se non fosse stato tanto menzionato da altri alpinisti scrittori come una sorta di bibbia sulla filosofia alpinistica. Scusate se ancora non l'ho nominato: parlo de "I conquistatori dell'inutile" di Lionel Terray. Splendido, ma non per come lo aspettavo.
Molto più d'un classico libro di montagna, un'autobiografia del noto alpinista francese, si pone al lettore con tutte le caratteristiche che formano un romanzo. L'autore sa bene cosa dire, narra di sé attraverso il momento più storico dell'alpinismo, menziona attentamente accenni dell'infanzia, la difficile permanenza nell'esercito durante la guerra, le terribili situazione che avvolgevana i mondo in quegli anni, il costante richiamo sfrenato della natura ai suoi uomini più irrequieti. Si autoproclama fautore ed amante delle montagne, guida alpina di valore e compagno di pertiche del periodo quali: Gaston Rebuffat, Luois Lachenal, Jean Couzy.
A cavallo delle formidabili imprese, le sue riflessioni diventano anche pompose e spaccone, ma comunque sempre ridimensionate dal titolo scanzonatorio.
A mio avviso Terray non è un filosofo della montagna (come invece mi facevan credere), piuttosto uno splendido comunicatore. Dalla sua penna non fuoriesce che la verità vissuta in quei momenti, forse meno profonda di altri, ma assai riconoscibile a chi almeno una volta si è trovato praticare alpinismo. Pagina dopo pagina riflettevo su cosa per me significhi veramente l'alpinismo, forse ancora non ne son certo.
Vorrei menzionare appunto un curioso sogno che ho avuto al termine di un racconto (spesso e volentieri amo leggere prima di dormire, intimo momento della giornata e dove in seguito si rielaborano i contenuti).
Sicuramente legato al capitolo appena trattato, l'autore narrava infatti di una terribile disavventura vissuta durante la discesa dalla vetta dell'Annapurna. Assieme ai compagni venne sommerso da una valanga e intrappolato in una buca nella neve. Ad aggravare la situazione s'aggiungono le difficili condizioni del compagno e amico Lachenal, congelato ai piedi e allucinato dalla fatica e dall'alta quota.
Nel sogno mi ritrovavo in una situazione simile, isolato e con un compagno ferito fra dei pendii himalayani, spaesato nella nebbia e acciecato dalle interperie. Invece di mostrare interesse per le condizioni dell'amico, disperavo quanto più verso uno sfreggiamento al viso (causato probabilmente dal freddo) che mi aveva deturpato le sembianze. Tutto ciò scaturiva fortissime angoscie interiori, non sapendo se abbandonare il compagno al triste destino cercando di raggiungere il campo base più in fretta possibile, salvandomi forse così da una mutilazione eterna. Come tutti i sogni poi, è terminato prima che potesse darmi una conclusione rivelatoria. Ma quanto vissuto è bastato per ragionare su come davvero potrei comportarmi in una situazione tale, forse con l'altruismo commovente del buon Terray, che concesse i suoi scarponi all'amico al fine di salvarlo dall'ipotermia, oppure pensare egoisticamente, salvando poi quella parte superficiale che meno conta in montagna ma tanto serve nel mondo degli uomini. La faccia.
Eh vabè, spero di non scoprirlo mai (soprattutto di non essermi giocato futuri compagni di cordata con queste rivelazioni preoccupanti).
Tornando al libro, quello che poi ci interessa, terminerei con menzionare una parte, una frase che mi aggiudicherà definitivamente la fama di farabutto rompicazzo. L'ultima conclusiva, lascia nel lettore una lacrima di commozione, quasi a farlo apposta, par coscente del legame maligno con la morte che toccherà l'alpinista qualche anno dopo, poco distante dal luogo in cui quel giorno terminò il suo splendido libro:
« Se veramente nessuna pietra, nessun seracco, nessun crepaccio sta attendendomi da qualche parte del mondo per fermare la mia corsa, verrà il giorno in cui, vecchio e stanco, saprò trovare la pace tra gli animali ed i fiori. Il cerchio si chiuderà ed io diventerò il semplice pastore che sognavo di diventare da bambino.